Oggi vi presentiamo il film FANTASMI NEL SUD del regista indipendente Marco Lanzafame, prodotto da Marco Lanzafame e Claudia Clemente e liberamente tratto dal racconto di G. Gironda.
Nel cuore desolato della campagna siciliana l’avventura dell’emigrazione degli anni ’50 viene vista attraverso gli occhi di un vecchio contadino.
Il fischio del treno rievoca il dolore nella madre che ha già visto partire i suoi tre figli e teme per il più giovane rimasto. Intanto nella taverna del paese la televisione continua ad ammaliare i giovani con le immagini del benessere e del lavoro: il mondo dorato del Nord lontano anni luce dalla loro dimensione esistenziale.
Uno spaccato ironico e struggente della vita siciliana di quegli anni.
FANTASMI NEL SUD viene così recensito dal critico cinematografico Gregorio Napoli:
Dadaumpa! La “fabbrica” delle illusioni
Con la lucidità di un illuminista, Marco Lanzafame coglie le ragioni del malessere.Del nostro malessere: di siciliani, dannati della terra, schiavi del sottosviluppo.
Con lo splendido mediometraggio Fantasmi nel Sud, il Cineasta individua le coordinate dell’esilio e, come un Sidney Sonnino del XXI secolo, individua cause ben precise.
La segregazione e l’abbandono della civiltà agreste, certo. Ma soprattutto, l’avvento della tirannia da teleschermo. Poche volte, nella nostra Settima Arte, le infamie della omologazione televisiva sono state esposte ad un giudizio così severo. Le Kessler che sgambettano sugli accordi sinuosi del Dadaumpa sono ancelle di un allettamento che ha condotto la Sicilia verso l’adorazione di modelli incongrui.
Lanzafame, però, e la sua squisita consorte Claudia Clemente, sono poeti. Dunque, il loro assillo sociologico si stempera, con notevole timbro emotivo, nel dolore della Madre, che sussulta al fischio del treno, ed ascolta come in un incubo lo sferragliare del convoglio sulle rotaie: poiché quei vagoni hanno portato via metà del suo cuore; ed è arduo vivere serenamente con l’altra.
Al Padre resta il tragico dilemma: premere il grilletto e vendicarsi; o piangere?
Fra i casolari di Bagheria e Calatafimi, nelle bettole, sui campi talvolta zeppi di sterpi e tristemente incolti, si leva un canto dove la mestizia del tocco fa strofe con l’umile abnegazione della fatica casalinga; e la Madre che riprende a stendere i panni è vinta/vittoriosa, fattrice di un riscatto morale che evoca la maschera ellenica di Katina Paxinou, la Mamma di Rocco nel capolavoro viscontiano.
In tal senso, e con questi echi, i Fantasmi di Lanzafame sono demiurghi austeri di un dibattito che fa onore al cinema indipendente italiano.
Gregorio Napoli
Nel cuore desolato della campagna siciliana l’avventura dell’emigrazione degli anni ’50 viene vista attraverso gli occhi di un vecchio contadino.
Il fischio del treno rievoca il dolore nella madre che ha già visto partire i suoi tre figli e teme per il più giovane rimasto. Intanto nella taverna del paese la televisione continua ad ammaliare i giovani con le immagini del benessere e del lavoro: il mondo dorato del Nord lontano anni luce dalla loro dimensione esistenziale.
Uno spaccato ironico e struggente della vita siciliana di quegli anni.
FANTASMI NEL SUD viene così recensito dal critico cinematografico Gregorio Napoli:
Dadaumpa! La “fabbrica” delle illusioni
Con la lucidità di un illuminista, Marco Lanzafame coglie le ragioni del malessere.Del nostro malessere: di siciliani, dannati della terra, schiavi del sottosviluppo.
Con lo splendido mediometraggio Fantasmi nel Sud, il Cineasta individua le coordinate dell’esilio e, come un Sidney Sonnino del XXI secolo, individua cause ben precise.
La segregazione e l’abbandono della civiltà agreste, certo. Ma soprattutto, l’avvento della tirannia da teleschermo. Poche volte, nella nostra Settima Arte, le infamie della omologazione televisiva sono state esposte ad un giudizio così severo. Le Kessler che sgambettano sugli accordi sinuosi del Dadaumpa sono ancelle di un allettamento che ha condotto la Sicilia verso l’adorazione di modelli incongrui.
Lanzafame, però, e la sua squisita consorte Claudia Clemente, sono poeti. Dunque, il loro assillo sociologico si stempera, con notevole timbro emotivo, nel dolore della Madre, che sussulta al fischio del treno, ed ascolta come in un incubo lo sferragliare del convoglio sulle rotaie: poiché quei vagoni hanno portato via metà del suo cuore; ed è arduo vivere serenamente con l’altra.
Al Padre resta il tragico dilemma: premere il grilletto e vendicarsi; o piangere?
Fra i casolari di Bagheria e Calatafimi, nelle bettole, sui campi talvolta zeppi di sterpi e tristemente incolti, si leva un canto dove la mestizia del tocco fa strofe con l’umile abnegazione della fatica casalinga; e la Madre che riprende a stendere i panni è vinta/vittoriosa, fattrice di un riscatto morale che evoca la maschera ellenica di Katina Paxinou, la Mamma di Rocco nel capolavoro viscontiano.
In tal senso, e con questi echi, i Fantasmi di Lanzafame sono demiurghi austeri di un dibattito che fa onore al cinema indipendente italiano.
Gregorio Napoli
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