domenica, ottobre 14

Michael Clayton Recensione Film George Clooney regia di Tony Gilroy


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(...) Michael Clayton è una buona idea costruita su fragili fondamenta. (...)

(...) Un film intitolato con il nome di un personaggio non può non comunicarci l'intreccio essenziale, non può non raccontarci la storia del protagonista principale che fa anche da titolo al film.

Non sappiamo molto su Michael Clayton, interpretato da George Clooney: paradossalmente non sappiamo come svolge il suo lavoro ed in cosa consiste, non lo vediamo in azione, non sappiamo perchè un illustre uomo di legge con un curriculum prestigiosissimo e che paga 10.000 dollari di affitto al mese abbia improvvisamente insormontabili difficoltà a procurarsene 75.000, non conosciamo la vita privata di Clayton, non conosciamo nemmeno i suoi vizi ed i suoi problemi, se non per un rapido accenno al gioco d'azzardo.
L'abbozzo superficiale di un character non basta a rendere compiutamente un personaggio. (...)

(...) Purtroppo la sceneggiatura di Michael Clayton non va, non si può pretendere che lo spettatore immagini e costruisca interamente nella propria mente la trama di un film senza che gli siano stati forniti quantomeno gli adeguati spunti (...) CONTINUA

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1 Commenti:

realuca ha detto...

SHIVA IL DISTRUTTO



Chiedo scusa... non avendo le credenziali per poter, a mia volta, criticare o (meglio ancora!!) contraddire quella che secondo me è una valutazione del film del tutto fuori luogo da parte di Olga di Comite.
Ho visto il film ieri sera e sono rimasto impressionato; si... diciamo che chi voleva seguire una trama dalla linearità così immediata (scontata) da potersi perdere anche una ventina di minuti(!) HA SBAGLIATO SALA.
Ed è anche vero che il tema non è nuovo alla trattazione, ma in questo caso, secondo il mio inadeguato(?) giudizio, assume valenza totale... valenza di personaggio!
Non sono il background di Michael (George Clooney), quanto la pazzia di Arthur ( Tom Wilkinson), o meglio(peggio) ancora il senso di oppressione di Karen (Tilda Swinton) a rappresentare il punto focale intorno al quale si muove la diegesi; e va bene!! la drammaturgia è indispensabile per permettere all'empatia del pubblico di dematerializzarne l'identità per vivere a pieno la storia (che ha questo punto abbiamo inequivocabilmente etichettato come mal caratterizzata).
La storia si sofferma, lasciando riflettere, su questioni molto semplici, di spietata quotidianità! senza per questo implicarne l'inserimento in dialoghi di causa-effetto utili a portare il pubblico a conclusioni quali “ah si... ho capito... ecco perché... lo sapevo(...)” niente di tutto questo.
La storia è semplice: un avvocato socio di uno studio, tra l'altro il più brillante nelle questioni di diritto psichiatrico (eh si! perché inizialmente si pensa di internarlo, ma come combattere il migliore... a casa sua?), ossessionato da sensi di colpa, per usare un banale eufemismo, dovuti ad una vita professionale troppo spesso violentatrice di basilari principi etico-morali, decide di SPOGLIARSI (geniale come scelta) durante un deposizione nella quale più che mai non può che rendersi conto che quei vestiti, sinonimo di una cinica identità professionale, rappresentano la guida verso scelte che non gli appartengono... non più almeno; si ripete il termine “professionale” esclusivamente per rendere ridondante un concetto che scelte registiche fanno in pellicola: il monologo iniziale a schermo buio, fitto e sfuggente come a volerlo rendere ermetico, a volerne far perdere le tracce a distanza di pochi minuti, svolge il ruolo di personaggio principale; parole che sembrano dipingere Arthur come un pazzo, tra pensieri (s)legati senza soluzione di continuità, ma che lo trascinano verso un semplice epilogo: Arthur vuole evolvere in Shiva il ditruttore.
Semplice a questo punto dedurre che da un lato c'è il buono che vuole fare la scelta giusta per salvare vite umane, per sentirsi umano, e i cattivi che vogliono annientarlo per continuare a far soldi, meglio ancora, per mantener giuste le proprie scelte lavorative, quindi di vita! Anche Michael non mancherà di ricordare all'amico pazzoide di essere giunto a quel punto a seguito di un percorso fatto di scelte, e non dal giorno alla notte. Allora Michael cosa rappresenta? Forse una domanda che a sua volta tuona dentro ognuno di noi: fare la scelta giusta(lavorativa) o cercare di capire qual'è la scelta giusta. Certo che è un film Americano a lieto fine: Michael si redime tornando sui suoi passi (aveva venduto la verità di Arthur per 80.000 dollari utili a saldare i propri debiti), affossando lo studio con la confessione di Karen... ma in prospettiva di un futuro probabilmente difficile: dovrà pur aspettarsi ritorsioni a seguito del proprio gesto (era stato quasi assassinato per aver investigato sui fatti). Eccolo il vero finale: il conflitto innescato dai due tipi di scelta quasi sembra bloccarci, lasciandoci annichiliti, quasi come un dettaglio di una scala mobile sull'uscita di scena di Michael che, in moto perpetuo (avanti e indietro), rimane ferma su se stessa; la scelta giusta sembrerebbe entrare in un taxi per lasciarci condurre lontano... sino a che possano 50$. (...) Anche se, come Karen, molto spesso ci specchiamo nella scintillante ammiccanza che la nostra immagine (lavorativa) proietta all'esterno... nonostante molti momenti di intimità ci lasciano trasudare vergogna.